Il cielo era plumbeo. Ingoiava i colori della campagna distesa oltre le
finestre della sua casa, venti passi oltre la strada principale e la
ferrovia, appena cinque passi dietro alla casa di Nicola, detto anche 'Stalin' da suo fratello maggiore che in quel
momento era a Bologna a frequentare l’ultimo anno di università.
Era
plumbeo il cielo, era pur sempre Ottobre in fin dei conti, e Mauro se
ne stava in cucina, le chiappe ossute sulla sedia di vimini e legno e lo
sguardo che sovrastava una pila di stoviglie appena lavate.
Dieci anni, fronte alta, spazietto fra i denti, capelli castani simili a piume di pulcino e mani appiccicose.
Mauro aveva paura.
E poi quel cielo non gli piaceva, anzi gli faceva proprio schifo, e non
lo sapeva, ancora non poteva immaginare che dopo aver compiuto
vent’anni quella autunnale sarebbe stata la sua stagione preferita, ma
solo se vissuta nel suo paese, quella specie di ferita fra due
capoluoghi, trionfo di fabbriche e fucina di tossicodipendenti e scout
bigotti, culla ideale per preti indolenti e severi, una ferita nel cui
dolore lieve e dimenticato sarebbe tornato sempre volentieri, per
entrare in casa, stendersi sfinito su un letto troppo molle e guardare
lo stesso cielo promettere pioggia.
Non poteva saperlo e non gliene
sarebbe fregato nulla perché aveva paura in quel momento Mauro, più di
quella che avrebbe avuto se si fosse imbattuto in Gino Lanzelli e quelli
più grandi che gli sputavano addosso e lo prendevano a calci in culo
ogni maledetto giorno.
Stringeva un foglietto, ormai parzialmente
sgualcito dal sudore delle mani, e lo guardava e l’ansia cresceva perché
dentro c’era scritto qualcosa e quel qualcosa riguardava suo padre e
quel qualcosa l’aveva scritto lui e quel qualcosa era stato premiato
dalla maestra solo poche ore prima con un ‘Ottimo’ scritto a chiare
lettere e quel qualcosa era stato definito poche ore prima da quella
donna che Mauro sognava tutte le sere prima di addormentarsi “il più bel
tema della classe”.
“L’hai letto al papà?”, “no, maè”, aveva
risposto lui, fingendo di non guardarle il seno, morbido, e i capezzoli
che si intuivano sotto la maglia di cotone, “Ma devi farlo, Mauro”,
aveva proseguito lei, “promettimi che lo farai” e lui, scemo, aveva
promesso e ad un tratto le tettone erano sparite e in lui era nata la
paura che nasceva sempre quando doveva mostrare, dire o raccontare
qualcosa a suo padre.
“Come cazzo…” sussurrava rosicchiandosi il
pollice, terrorizzato da quello che il signor Benfi avrebbe detto,
peggio! avrebbe pensato, di quella stronzata scritta di getto solo due
giorni prima. Non avrebbe potuto sopportare l’indifferenza stampata sul
suo volto che sarebbe tornato impietoso a fissarsi pochi istanti dopo
sui risultati della schedina o sullo schermo, dopo avergli rivolto un
breve cenno di assenso e avergli domandato “si, ma almeno alla maestra è
piaciuto?” e soprattutto non avrebbe sopportato la sua vocetta da
cagasotto, saputo e fragile che avrebbe risposto “si, mi ha messo
ottimo” sperando di trovare dall’altra parte un entusiasmo che si
sarebbe ridotto a un “bravo a papà”.
Pensò di lasciar perdere,
“cazzo me ne frega…”, si disse, “lunedì a scuola dirò che l’ho letto.
Tanto importa solo a quella, sti cazzi, dico che gliel’ho letto, che mi
ha detto ‘bravoo!’ e ciao”. Ma sentiva che non andava. Perché non sapeva
mentire ed era un bambino coglione e ubbidiente e poi perché in fondo
voleva leggergliela quella stronzata al signor Benfi, stravaccato sul
divano senza scarpe, la pancia impegnata in un ritmico e regolare su e
giù e gli occhi grigi e semi chiusi dal sonno post-pranzo che incalzava.
“O adesso o dopo di fronte a tutti è sicuro che non lo faccio!” pensò
il bambino ma non si decideva perché ricordava ancora la storia dello
schiaffo che il padre gli aveva mollato, dopo la crisi di sua madre. Era
stata male l’anno prima, la signora Benfi e, un giorno in cinque minuti
aveva distrutto il soggiorno. “Questo disordine! Questo disordine!”,
gridava scaraventato tutti i giochi da tavolo e il lego e tutte le
suppellettili che troneggiavano sul caminetto per terra. Tutto a causa
del pupazzo Hulk Hogan lasciato sul pavimento.
Mauro l’aveva
lasciata fare, non era colpa sua, lo sapeva, la mamma aveva la
depressione, una cosa che lui non capiva ma che doveva essere brutta e
imprevedibile perché le faceva cambiare umore ogni minuto e le faceva
sentire prima troppo caldo, poi troppo freddo e poi le faceva venire il
panico e quello per Mauro era stato un anno terribile perché ogni volta
che le veniva il panico lui doveva portarla a fare una passeggiata per i
corridoi della casa e lei lo ringraziava e lo baciava ma allo stesso
tempo lui si sentiva un inutile buono a nulla. Dopo quella crisi, più
forte di altre, il signor Benfi era tornato di corsa a casa, lasciando
l’ambulatorio in fretta e furia e quando era arrivato e aveva visto
tutto quel casino aveva rimproverato Luisa, afferrandola per le spalle e
scuotendola mentre lei ancora piangeva, Dio solo sapeva perchè. Poi
l’aveva messa al letto, aveva riordinato il soggiorno e mentre preparava
la cena Mauro si era avvicinato mostrandogli un disegno che lo
raffigurava e lui si era voltato come una furia e gli aveva dato uno
schiaffo. Poi si era girato di nuovo, di scatto, chino sulle foglie di
lattuga e i pomodori e Mauro aveva avuto paura, poi era andato al letto e
aveva pianto…
“Papà” chiamò una voce che non sentiva come sua,
“eh…” rispose il signor Benfi tirandosi su e stiracchiandosi
leggermente, “oggi la maestra mi ha messo ottimo a una cosa che ho
scritto. Su di te.”. “Ah! Mbè dammi!” esclamò il papà ancora fra sonno e
veglia e solo lì Mauro si accorse che gli stava prendendo il foglio
dalle mani e che se lo avvicinava al volto e che iniziava a leggerlo,
mentre col dito abbassava il volume della televisione.
Dieci
minuti dopo il cielo era ancora lì, ancora color perla, ancora gonfio di
pioggia ma a Mauro sembrò che l’autunno fosse morto e che a ucciderlo
fosse stato il sorriso di Giorgio Benfi, che si era fatto largo fra due
baffoni folti e neri, lo stesso che gli aveva visto pochi mesi prima e
che aveva illuminato gli spalti di un campetto di calcio, dopo la
doppietta che lui, il piccolo Mauro, aveva segnato contro la squadra
avversaria. Lo stesso che gli faceva brillare gli occhi, dopo qualche
bicchiere di vino fatto in casa da Bruno, l’amico di sempre, lo stesso
che gli colorò la faccia quando vinse un cesto pieno di specialità
abruzzesi come premio per essere arrivato primo al torneo di boccette al
circolo del paese. Lo stesso che fino a quel momento aveva sempre
riservato solo a Luisa.
Anche lei aveva ricominciato a sorridere.
Le guance gli pungevano ancora perché la barba ispida di Giorgio gli si
era strofinata sulla pelle mentre lo baciava e lo stringeva a lui,
sulla poltrona.
E Mauro ancora rideva come un idiota, tenero e
felice… e ancora rideva e rideva di gusto mentre si avventava come una
bestia fuori dalla gabbia e per la prima volta, contro Gino Lanzelli. Il
quindicenne brufoloso e sudicio che puzzava di big buble e sudore, quel
pomeriggio non fece in tempo a chiamarlo “frocio” che già urlava di
dolore mentre riceveva un deciso e risoluto calcio nei coglioni.
Ilenia