http://www.ondacalabra.it/web/2012/04/maternity-blues-un-progetto-troppo-ambizioso/
È difficile raccontare storie di madri che uccidono i propri figli. È
arduo tentare di stabilire se esista o meno un istinto materno o se sia
solo frutto di un condizionamento sociale che vorrebbe affibbiare alla
donna ruoli e sentimenti che magari non appartengono a tutto il genere
femminile. È anche vero, tuttavia, che per realizzare un buon film
basato su un progetto così temerario, servirebbero tanti anni di
lavorazione o una quantità di risorse e mezzi di cui forse neanche un
grande kolossal necessiterebbe. Maternity Blues, diretto da Fabrizio Cattani, tratto dall’opera letteraria From Medea di Grazia Verasani e prodotto da Fandango,
uscirà nelle sale il 27 aprile. Pur essendo il risultato di un’idea
originale, riesce solo in parte a centrare gli obiettivi che si propone.
Proiettato oggi in anteprima alla Casa del Cinema di Roma,
il film vorrebbe condurre lo spettatore in un limbo in cui il giudizio
sull’efferatezza del crimine viene sospeso per osservare più da vicino i
periodi di depressione e di solitudine di cui è vittima la donna,
soprattutto dopo il parto. In questa ‘terra di nessuno’ l’orrore che
caratterizza l’omicidio di un bambino dovrebbe però unirsi a un
sentimento di compassione, perfino di empatia nei confronti delle madri
carnefici, rinchiuse in un ospedale psichiatrico giudiziario ad espiare
la loro colpa.
‘’Spero che il pubblico possa acquisire un punto di vista diverso
nei confronti di queste donne che nel film non vengono giustificate ma
neanche trattate come mostri’’ ha dichiarato il regista nel corso della conferenza stampa. ‘’Partorire ed allevare un bambino – ha proseguito – non
è sempre e per tutte così ‘naturale’ come molti credono ma può
diventare anche complicato, difficile, soprattutto quando queste donne
vengono lasciate sole e la loro depressione non viene notata dalle
persone che vivono accanto a loro’’.
Il soggetto, scritto dalla Verasani nel 2002, nasce proprio da una reazione dell’autrice nei confronti di ‘’un
certo tipo di opinionismo, superficiale ed ipocrita, che accomunò molti
protagonisti dei vari salotti televisivi dopo il delitto di Cogne’’.
Secondo gli autori, dunque, le madri non sono le sole colpevoli del
delitto. Anche il sistema sociale, con l’indifferenza che lo
caratterizza, sarebbe una sorta di connivente, un complice che spesso
lascia che questi crimini accadano senza azzardare nessun atto
preventivo.
Purtroppo però sono tanti gli elementi, anche tecnici, che non sono
all’altezza dei principi teorici da cui il film prende le mosse.
Dall’interpretazione un tantino stereotipata di alcuni attori, alla
mancanza di realismo dei dialoghi – alcuni spesso al limite della
banalità -, fino alla presenza di scene quantomeno inopportune.
Esemplare, in questa categoria, quella in cui Eloisa – Monica Birladeanu
– il personaggio all’apparenza più cinico del film, canta una canzone
dedicata a suo figlio nel bel mezzo della tradizionale festa di Natale
dell’ospedale psichiatrico.
Senza dover menzionare la presenza di personaggi ‘duri fuori e teneri
dentro’ che caratterizza buona parte della cinematografia – e senza
infierire sulla qualità e l’utilizzo del playback – pensiamo che questo
intermezzo, oltre a non emozionare né commuovere, rischi di snaturare
perfino l’importanza e la gravità del tema centrale del film. Di tutti i
tormenti che crediamo caratterizzino i pensieri di donne che hanno
vissuto una simile esperienza, il film si concentra maggiormente
sull’analisi del senso di colpa e quel che è peggio non ci permette di
sorprendere nessuna ‘Medea nell’atto di sferrare il colpo’. Fa
eccezione, forse, solo l’infanticidio che compie Vincenza – interpretata
da Marina Pennafina – che sarà anche l’unica a punire se stessa con un atto disperato e definitivo.
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