venerdì 20 aprile 2012

DIAZ ed altro


Si può arrivare a considerare la vita altrui mera esistenza biologica? Sì, si può. E Diaz di Daniele Vicari mostra e dimostra cosa succede quando si arriva a normalizzare nella propria testa questa visione. Forse si innesca un processo che ci fa tornare bambini. Che ci fa giocare con gli 'insetti' finché non sopraggiunge la noia e l’insoddisfazione. Perché li vediamo così inermi nelle nostre mani che finiamo per considerarli deboli, spregevoli. Tediosi.
Il macello dei ragazzi accampati nel liceo Diaz, durante il G8 di Genova, perpetrato da poliziotti che così hanno deciso di sfogare giorni, mesi, anni di frustrazione, rabbia e violenza represse, viene ripreso da Vicari sbattendo in faccia allo spettatore la brutalità inaudita dell’atto che appare ancora più efferato perché guidato da motivazioni che sono assurde per tutti tranne che per i burattinai che da sempre tessono le fila del sistema in cui viviamo. Queste motivazioni non possono non ricordare lo stralcio di un’intervista rilasciata da Francesco Cossiga nel 2008, quando buona parte dell’universo scolastico protestava contro i provvedimenti della Gelmini. L’ex Presidente della Repubblica dispensava consigli sulla più efficace procedura da seguire durante le manifestazioni, per far sì che la violenza delle forze dell’ordine sui civili venisse tollerata e giustificata:

''Maroni dovrebbe fare quello che feci io quando ero ministro dell'Interno (Vedi in particolare le notizie inerenti l’omicidio di Giorgiana Masi nel 1977).
In primo luogo lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino di dodici anni rimanesse ucciso o gravemente ferito (…) Lasciar fare gli universitari. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. (…). Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. (…). Nel senso che le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. (…). Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. (…). Soprattutto i docenti. Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì’’.

Ancora. queste motivazioni non possono non essere accostate alle riflessioni lette un po’ di tempo fa sul libro intitolato Chi disturba i manovratori, di Marco Palladini, che a sua volta commenta le teorie del filosofo Giorgio Agamben sullo ‘stato d’eccezione’. È in questo tipo di stato che si sperimenta un totalitarismo travestito da democrazia, dove qualsiasi pratica repressiva ai danni dei soggetti non integrati nel sistema viene normalizzata e normativizzata. Il totalitarismo dei nostri tempi non sarebbe altro che una guerra civile permanente e ‘legale’ che permette l’eliminazione fisica non solo di avversari politici ma di intere categorie di individui che per qualche ragione risultano non compatibili con il sistema. Citando anche Judith Butler, Agamben si concentra in particolare sulla condizione dei prigionieri di Guantanamo. Il carcere di massima sicurezza diventa il luogo simbolo in cui la vita umana transita da una dimensione sociale e giuridica (bíos), a quella della mera essenza biologica (zoé).
Diaz è tutto questo? Sì, è tutto questo. Ed è anche un’ottima regia, un eccellente ingranaggio che prende il via da un particolare frammento che fa sì che tutta la storia si dipani a raggiera e che venga vista e vissuta da molteplici punti di vista. È anche un film in cui sequenze a rallentatore, accompagnate da una buona colonna sonora – a volte troppo presente – assumono le sembianze di brevi, inquietanti videoclip. È la pellicola di un regista che non si è dimostrato ‘egoista’, che ha riconosciuto la miriade di contributi di sconosciuti video maker e degli organi di stampa presenti al G8 e gli ha dato ampio spazio. È un’opera che potremmo anche azzardarci a definire ‘corale’, nonostante il coro non canti ma urli di dolore e di rabbia. In questo senso un plauso particolare va’ anche ad Elio Germano e Claudio Santamaria che accettano di rinunciare coscientemente al ruolo di ‘attori famosi’ e si mischiano nella calca, si fanno davvero piccoli per dar visibilità alla storia, alla vischiosità di un sangue che non dovrà essere pulito.   

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