giovedì 14 giugno 2012

Via Libera al teatro di Harold Pinter


Dall’innocenza all’assurdo. Dalla convivialità al terrore. Sono questi i contrasti cardine del teatro di Harold Pinter, egregiamente resi nello spettacolo Party. Che fine ha fatto Jimmy?. La piéce, messa in scena dalla compagnia Via Libera al Teatro e diretta da Antonio Sinisi e Daniele Miglio, è basata sull’interazione ed il collage di cinque testi del celebre e controverso autore: Party Time, Anniversario, L’intervista, Tess e Conferenza Stampa.
Tanti attori in scena danno vita ad un meccanismo - diviso in tre atti - in cui la goliardia e l’entusiasmo tipici di borghesi benestanti riuniti ad una festa, svelano un retroscena fatto di violenza e sopraffazione. Il senso politico che segna con vigore tutti i lavori di Pinter emerge gradualmente, e nelle battute iniziali e centrali non è che un’eco che si nasconde dietro dialoghi affettati o sboccati, tautologie, non-sense.
Buona parte dello spettacolo infatti è basato sull’importanza quasi invasiva della parola, della conversazione, del racconto e del monologo. Il ritmo della voce degli attori, delle pause e delle riprese è quasi sempre serrato e costruisce una sorta di ‘danza’ con le luci e le ombre che si creano sul palco e con i movimenti. 





Al centro della rappresentazione, tuttavia, non c’è solo la parola ma anche la presenza scenica, la fisicità stessa degli interpreti – molti di loro sono attori alla prima esperienza - capaci di amalgamarsi e creare un movimento d’insieme compatto.
‘’Abbiamo deciso di dare rilievo ai movimenti sulla scena in modo da armonizzarli con l’intreccio drammaturgico’’, ha spiegato il regista Antonio Sinisi. ‘’Abbiamo studiato anche le caratteristiche fisiche dei vari attori – ha proseguito – proprio per creare questo tipo di ‘corrispondenza’ anche fra corporeità e personalità dell’interprete’’. Questo risalto della fisicità e dei riferimenti al corpo è rafforzato anche dai numerosi rimandi al sesso presenti nello spettacolo. Ma quella di Party è una sessualità affrontata nei suoi aspetti più materialistici o peggio, come strumento privilegiato di controllo e barbarie.
Antonio Sinisi, giovane regista giunto al suo quarto lavoro su Pinter, è membro dell’Officina Culturale Via Libera, come gli attori e lo staff che hanno reso possibile la rappresentazione. L’associazione, che ha sede nel quartiere del Quadraro, in via dei Furi, promuove e realizza ogni anno attività legate anche alle arti figurative, alla musica, alla cucina e alla letteratura ed è aperta alle proposte di chiunque voglia prender parte ai progetti o offrire un contributo.
‘’Sicuramente organizzeremo qualcos’altro l’anno prossimo, probabilmente da Gennaio’’, ha concluso Sinisi.  





Lo spettacolo si è svolto presso
Teatro dell’Orologio, via De’ Filippini 17/A
Sabato 9 Giugno ore 21.00
Domenica 10 Giugno ore 17.30

Party. Che fine ha fatto Jimmy?
Regia Antonio Sinisi; Daniele Miglio
Musiche originali Roberto Fega
Produzione Officina culturale Via Libera

venerdì 1 giugno 2012

http://www.retididedalus.it/Archivi/2012/giugno/PRIMO_PIANO/3_ricordi.htm

IL POETA ELIO PAGLIARANI COMPRESO IN UNA SEMPLICE STRETTA DI MANO ...

è davvero così necessario, piecevole, utile, frequentare un poeta o uno scrittore? O bastano le sue opere ad appagare la nostra curiosità? E se la personalità dell'autore ci delude rispetto all'efficacia delle sue prose o dei suoi versi? Molto spesso la delusione per la persona rischia di soffocare l'ammirazione per il suo lavoro... ma le eccezioni fortunatamente esistono.

Eccone almeno due nelle riflessioni del giovanissimo e ottimo critico Domenico Donatone



I miei rapporti con i poeti non sono così intensi, contrariamente, forse, a ciò che un critico dovrebbe avere. I miei rapporti con gli scrittori sono ponderati, misurati, quasi esclusivi, riservati. Incontrare, conversare, raccontare, discutere, cenare, sono alcuni verbi che indicano azioni possibili che personalmente tengo distanti. Certamente conosco diversi poeti, ma la mia voracità è di libri, non di uomini. Sono legato ad una frase di Walt Whitman: «Chi tocca un libro tocca un uomo». Mi basta questo, non chiedo altro! Ovviamente incontro chi mi pare, e converso con chi mi pare, senza nessuna mitizzazione. Il principio empirico da cui parto è che i poeti vanno letti, non frequentati. Se li frequenti c’è il rischio che ti deludano. Ti deludono da un punto di vista letterario, per cui ciò che si scrive non sempre coincide con ciò che si pensa o si fa. Nascono delle incoerenze che producono distanza. Vita e opera coincidono davvero poco!
Me ne sono accorto presto e, da allora, ogni lectio magistralis mi appare superflua, perché è tanta l’ambiguità umana, anche dei poeti. L’immagine che ho del poeta è sacra, imperturbabile, mitica, nel senso che nella mia mente tendo a tutelare lo scrittore dalla sua stessa immagine, invece è vero il contrario: il poeta è lunatico, isterico, solitario e, a volte, anche inconcludente, pessimo, distante. Lo si è detto di Picasso, lo si può dire adesso di altri senza allarmarsi. Conoscere il poeta di persona è un rischio, perché non è un politico di cui già sai l’inconcludenza: pensi, il poeta ha studiato, il politico no! Ti fidi di chi dimostra almeno di capire le cose. La conoscenza della persona fondamentalmente rischia di invaderti, di contaminare il tuo giudizio. Un discreto e simpatico rapporto umano l’ho avuto con Vito Riviello, perché sostanzialmente era lui in grado di agevolarlo, di togliersi la maschera e di essere uomo, coi suoi difetti senza nessuna alterigia. Dire che Vito era simpatico è poco, perché era divertente, una persona amabile che della sua morte sosteneva l’inevitabilità, al punto da consigliare a chi gli sarebbe stato vicino, pronto anche a ricordarlo, di non allarmarsi troppo perché, diceva, è naturale che si muoia! 


                                                      Elio Pagliarani



Nella sostanza questo mio atteggiamento di riservatezza non è snobistico, ma prudente, a volte direi timoroso e deferente, con la costante ossessione di disturbare chi, in qualche modo, essendo artista mi appare dentro un’aura di rispetto assoluto. Non è così, il poeta è soprattutto un uomo, ed è questa la cosa fondamentale da capire. La scuola spesso c’illude e mitizza scrittori e artisti. Non è fondamentale credere e ritenere che il poeta stia necessariamente avanti, ma ritenere che può esserlo per effettiva capacità critica, quanto per vanità o per puro eloquio. Il problema forse è mio, non dell’artista che spera che qualcuno si faccia avanti e gli dia spazio e credito. Io retrocedo, non per viltà ma per convinzione ed esperienza (qualcuno dirà pregiudizio!). Perché mi accade questo? Perché mi pare di non aver mai molto da dire con i poeti, bastandomi soltanto la lettura delle loro opere. Ma anche i poeti sono uomini, e parlano. In questa condizione trattenuta da eccessivo rispetto e forse timidezza (perché a costringerti a farti indietro è anche un po’ di delusione, di mancanza di soddisfazione: il critico è tra i tanti che lavora gratis!), posso dare spazio all’esigenza di conoscere davvero uno scrittore solo nel momento in cui l’opera lo richiede. Ciò che è scritto sulla pagina è l’imperativo a cui mi attengo, la persona è la confidenza che mi concedo, e se l’opera è valida nasce spontaneamente un’intimità che diversamente da ciò sarebbe pura formalità, oppure egoismo. L’opera mi basta per conoscere chi ho davanti. Stimolare qualcuno con un’intervista ti consente di essere contiguo ma non distante. Ed è qualcosa che vorrei realizzare: stimolare i poeti, intervistarli, nel tentativo di restituire loro un ruolo che hanno perduto.
Così nel giorno in cui mi giunge per e-mail la notizia della scomparsa di Elio Pagliarani, non posso scrivere quello che Andrea Cortellessa ha scritto sul sito Le parole e le cose (www.leparoleelecose.it: «Ma dobbiamo continuare», 9 marzo 2012) e cioè che lui conosceva Elio e che «della morte non si poteva parlare in sua presenza». Ecco, Andrea Cortellessa conosce e riconosce diversi poeti, l’opposto di ciò che capita a me per scelta. Questo rapporto può consentire di scoprire ulteriori cose del poeta. Scrive Cortellessa: «Era superstizioso, Elio. I suoi amici lo sapevano bene, ed evitavano di sfidare la sua collera leggendaria.» Ancora più a fondo Cortellessa nel suo pezzo riferisce di una “esacerbata moralità”, di uno “stoicismo brutale”, di una “passione pedagogica”, di “un’attitudine teatrale”: tutte cose della persona-Elio Pagliarani, non della sua poesia che resiste comunque anche se egli fosse stato un uomo timido o estroverso. Allora giova conoscere il poeta? Giova conoscere l’oggetto-persona della tua critica? No! Giova nella misura in cui decidi di stare dentro la poetica oppure di curiosare, di indagare, (come fece Antonio Ranieri con Leopardi); nei casi estremi è utile a farti chiarire quello che il poeta ha scritto.
Chi ha conosciuto Elio Pagliarani potrà in questi giorni scrivere i suoi “coccodrilli”, esprimere i propri ricordi, io, invece, posso scrivere ciò che non ho conosciuto ma che ho studiato: la sua poesia, i suoi epigrammi, i suoi poemi; ovvero l’essenziale, ciò che ha valore letterario. La conoscenza della sola opera garantisce di poter conservare maggiore distacco ed evitare di essere troppo affezionati, troppo coinvolti, anche in momenti come questi in cui il poeta muore e si distacca dal mondo perché non ci sono più parole. Io che non ho conosciuto Elio Pagliarani, (e avrei potuto certamente impegnarmi in questo, anche se la sua malattia non facilitava l’impresa), posso dire che dinanzi a me è comparso non solo un poeta, ma un uomo. Era il 2005, estate, lungotevere, Roma. In occasione di una celebrazione di Pagliarani, Walter Pedullà lo presentò a me e a un mio amico. Ci trovammo dinanzi ad un uomo prima ancora che ad un poeta. Pagliarani era stato operato al cuore e aveva subìto una intensa riabilitazione. Il tutto era impresso sul suo volto. I suoi occhi cercavano la vita in noi giovani che gli stavamo davanti. Ci strinse la mano con dolcezza, ci sorrise con nostalgia. 



                                                  Vito Riviello


Mi è bastato questo per capire come ci riduce la vita, ed ascoltare la lettura delle sue poesie per capire cosa rimane della vita quando se ne va l’uomo. Pagliarani lesse anche un messaggio rivolto alla platea: si commosse al punto che dovette più volte interrompere la lettura. In quel caso ho pensato: se lo avessi conosciuto davvero sarei stato all’altezza di un’amicizia? Avrei saputo stargli vicino? Sarei stato tra coloro che quel giorno, con reale affetto, avrebbero scatenato la sua commozione? Ipocrisie umane! Stringergli la mano mi ha riempito così tanto di entusiasmo che a volte quello che sono i poeti non è materia solo di studio, ma addirittura di emozione. Così posso ricordare Elio Pagliarani, convincermi che dentro la trama dei suoi versi c’è un sentimento ed un realismo che assimila i rapporti umani sempre così incompleti, sempre così azzardati, che dedicarsi all’opera significa almeno per una volta capire quanto sforzo si compie nell’essere scrittore, oltre che nell’essere uomo.

Quanto di morte noi circonda e quanto
tocca mutarne in vita per esistere
è diamante sul vetro, svolgimento
concreto d’uomo in storia che resiste
solo vivo scarnendosi al suo tempo
quando ristagna il ritmo e quando investe
lo stesso corpo umano a mutamento.

Ma non basta comprendere per dare
empito al volto e farsene diritto:
non c’è risoluzione nel conflitto
storia esistenza fuori dell’amare
altri, anche se amore importi amare
lacrime, se precipiti in errore
o bruci in folle o guasti nel convitto
la vivanda, o sradichi dal fitto
                                               pietà di noi e orgoglio con dolore.