venerdì 27 aprile 2012

Cheyenne, l'amore, i Pezzi di Merda

Tempo fa ho avuto la fortuna d'imbattermi in uno di quei film che ti fa venir voglia di convincerti che il protagonista sia davvero, da qualche parte, in giro per il mondo. Che la sua storia non sia solo il frutto di una sceneggiatura ben scritta ma una delle tante che irrorano questa terra.
Ha il nome di una canzone, è un film fatto di musica, sorretto da una voce flebile che ridacchia sfinita e 'sputa sentenze' che ti spaccano il passato in due.
E' uno di quei film che se avessi visto a 16 anni probabilmente avrei imparato a memoria, cercando in tutto il mondo un ragazzo truccato, con i capelli cotonati e vestito di nero, che somigliasse almeno un minimo al personaggio principale.
Comunque, basta farsi seghe.
Pubblico il brano che introduce questa storia sciancata e dolce. Indimenticabile.


http://www.youtube.com/watch?v=9Zg6svDmc6o&feature=share


THE PIECES OF SHIT 


Lay & Love


lunedì 23 aprile 2012

Maternity Blues. recensione.

http://www.ondacalabra.it/web/2012/04/maternity-blues-un-progetto-troppo-ambizioso/

È difficile raccontare storie di madri che uccidono i propri figli. È arduo tentare di stabilire se esista o meno un istinto materno o se sia solo frutto di un condizionamento sociale che vorrebbe affibbiare alla donna ruoli e sentimenti che magari non appartengono a tutto il genere femminile. È anche vero, tuttavia, che per realizzare un buon film basato su un progetto così temerario, servirebbero tanti anni di lavorazione o una quantità di risorse e mezzi di cui forse neanche un grande kolossal necessiterebbe. Maternity Blues, diretto da Fabrizio Cattani, tratto dall’opera letteraria From Medea di Grazia Verasani e prodotto da Fandango, uscirà nelle sale il 27 aprile. Pur essendo il risultato di un’idea originale, riesce solo in parte a centrare gli obiettivi che si propone.
Proiettato oggi in anteprima alla Casa del Cinema di Roma, il film vorrebbe condurre lo spettatore in un limbo in cui il giudizio sull’efferatezza del crimine viene sospeso per osservare più da vicino i periodi di depressione e di solitudine di cui è vittima la donna, soprattutto dopo il parto. In questa ‘terra di nessuno’ l’orrore che caratterizza l’omicidio di un bambino dovrebbe però unirsi a un sentimento di compassione, perfino di empatia nei confronti delle madri carnefici, rinchiuse in un ospedale psichiatrico giudiziario ad espiare la loro colpa.
‘’Spero che il pubblico possa acquisire un punto di vista diverso nei confronti di queste donne che nel film non vengono giustificate ma neanche trattate come mostri’’ ha dichiarato il regista nel corso della conferenza stampa. ‘’Partorire ed allevare un bambino – ha proseguito – non è sempre e per tutte così ‘naturale’ come molti credono ma può diventare anche complicato, difficile, soprattutto quando queste donne vengono lasciate sole e la loro depressione non viene notata dalle persone che vivono accanto a loro’’.
Il soggetto, scritto dalla Verasani nel 2002, nasce proprio da una reazione dell’autrice nei confronti di ‘’un certo tipo di opinionismo, superficiale ed ipocrita, che accomunò molti protagonisti dei vari salotti televisivi dopo il delitto di Cogne’’. Secondo gli autori, dunque, le madri non sono le sole colpevoli del delitto. Anche il sistema sociale, con l’indifferenza che lo caratterizza, sarebbe una sorta di connivente, un complice che spesso lascia che questi crimini accadano senza azzardare nessun atto preventivo.
Purtroppo però sono tanti gli elementi, anche tecnici, che non sono all’altezza dei principi teorici da cui il film prende le mosse. Dall’interpretazione un tantino stereotipata di alcuni attori, alla mancanza di realismo dei dialoghi – alcuni spesso al limite della banalità -, fino alla presenza di scene quantomeno inopportune. Esemplare, in questa categoria, quella in cui Eloisa – Monica Birladeanu – il personaggio all’apparenza più cinico del film, canta una canzone dedicata a suo figlio nel bel mezzo della tradizionale festa di Natale dell’ospedale psichiatrico.
Senza dover menzionare la presenza di personaggi ‘duri fuori e teneri dentro’ che caratterizza buona parte della cinematografia – e senza infierire sulla qualità e l’utilizzo del playback – pensiamo che questo intermezzo, oltre a non emozionare né commuovere, rischi di snaturare perfino l’importanza e la gravità del tema centrale del film. Di tutti i tormenti che crediamo caratterizzino i pensieri di donne che hanno vissuto una simile esperienza, il film si concentra maggiormente sull’analisi del senso di colpa e quel che è peggio non ci permette di sorprendere nessuna ‘Medea nell’atto di sferrare il colpo’. Fa eccezione, forse, solo l’infanticidio che compie Vincenza – interpretata da Marina Pennafina – che sarà anche l’unica a punire se stessa con un atto disperato e definitivo.

domenica 22 aprile 2012

Incluso il Cane

Si chiama Jacopo Incani, in arte Io sono un cane. L'ho ascoltato ieri sera dal vivo al Beba do Samba a Roma. La sua musica, in parte, l'avevo già conosciuta grazie al consiglio di un caro amico ma guardarlo interpretare i suoi testi di persona ha conquistato i -troppo pochi- presenti. Sul palco c'è solo lui che affronta strani macchinari, campionatori, distorsori - chiunque ne sappia di più mi illumini!! - fili, filetti, filoni che s'intersecano. Sembra uno scienziato pazzo mentre avvolto dalla sua maglietta rossa che grida no alla compravendita di biciclette rubate, urla la sua 'Macarena su Roma' con una voce potente, metallica, gracchiante, stridula, permanentemente alterata dal filtro del microfono. I suoi testi sono semplici, le parole coltellate. Il cane osserva tutto l'osservabile da occhio umano e lo trasferisce nelle canzoni, che sono decaloghi delle assurdità e del modo di vivere italiano contemporaneo in cui sguazziamo anche se non vorremmo e se non ci crediamo. Le spiagge affollate, gonfie di Donnemoderne e di bambini che non devono disturbare il vicino sono le stesse in cui il mare finisce nelle gole di ragazzini che cadono dai gommoni, e che non sanno nuotare. Il mondo in cui il cane scorrazza è quello di tutti e lui non lo osserva dall'alto ma anzi ammette suo malgrado di esserci dentro fino al collo. E' un universo fatto di televisione, salotti domenicali, opinionisti, psicologi, di cosce e stereotipi che conciliano la digestione e rammolliscono reazioni e pensieri. Un universo in cui la sfida più entusiasmante è sempre quella 'fra bionde e more'.
E se sembra che non stia dicendo niente di nuovo date un'occhiata alla scena cantautoriale indipendente italiana degli ultimi tempi... Il cane, per farla breve, riesce a catturare l'attenzione senza sfruttare testi gonfi di seghe intimiste, romantiche o consolatorie. La sua unica canzone d'amore non sembra neanche d'amore.
E purtroppo non riesco a trovarla da nessuna parte.
Comunque beccatevi la Macarena su Roma! 


http://www.youtube.com/watch?feature=endscreen&NR=1&v=UM7g8m2ZKRg

venerdì 20 aprile 2012

DIAZ ed altro


Si può arrivare a considerare la vita altrui mera esistenza biologica? Sì, si può. E Diaz di Daniele Vicari mostra e dimostra cosa succede quando si arriva a normalizzare nella propria testa questa visione. Forse si innesca un processo che ci fa tornare bambini. Che ci fa giocare con gli 'insetti' finché non sopraggiunge la noia e l’insoddisfazione. Perché li vediamo così inermi nelle nostre mani che finiamo per considerarli deboli, spregevoli. Tediosi.
Il macello dei ragazzi accampati nel liceo Diaz, durante il G8 di Genova, perpetrato da poliziotti che così hanno deciso di sfogare giorni, mesi, anni di frustrazione, rabbia e violenza represse, viene ripreso da Vicari sbattendo in faccia allo spettatore la brutalità inaudita dell’atto che appare ancora più efferato perché guidato da motivazioni che sono assurde per tutti tranne che per i burattinai che da sempre tessono le fila del sistema in cui viviamo. Queste motivazioni non possono non ricordare lo stralcio di un’intervista rilasciata da Francesco Cossiga nel 2008, quando buona parte dell’universo scolastico protestava contro i provvedimenti della Gelmini. L’ex Presidente della Repubblica dispensava consigli sulla più efficace procedura da seguire durante le manifestazioni, per far sì che la violenza delle forze dell’ordine sui civili venisse tollerata e giustificata:

''Maroni dovrebbe fare quello che feci io quando ero ministro dell'Interno (Vedi in particolare le notizie inerenti l’omicidio di Giorgiana Masi nel 1977).
In primo luogo lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino di dodici anni rimanesse ucciso o gravemente ferito (…) Lasciar fare gli universitari. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. (…). Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. (…). Nel senso che le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. (…). Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. (…). Soprattutto i docenti. Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì’’.

Ancora. queste motivazioni non possono non essere accostate alle riflessioni lette un po’ di tempo fa sul libro intitolato Chi disturba i manovratori, di Marco Palladini, che a sua volta commenta le teorie del filosofo Giorgio Agamben sullo ‘stato d’eccezione’. È in questo tipo di stato che si sperimenta un totalitarismo travestito da democrazia, dove qualsiasi pratica repressiva ai danni dei soggetti non integrati nel sistema viene normalizzata e normativizzata. Il totalitarismo dei nostri tempi non sarebbe altro che una guerra civile permanente e ‘legale’ che permette l’eliminazione fisica non solo di avversari politici ma di intere categorie di individui che per qualche ragione risultano non compatibili con il sistema. Citando anche Judith Butler, Agamben si concentra in particolare sulla condizione dei prigionieri di Guantanamo. Il carcere di massima sicurezza diventa il luogo simbolo in cui la vita umana transita da una dimensione sociale e giuridica (bíos), a quella della mera essenza biologica (zoé).
Diaz è tutto questo? Sì, è tutto questo. Ed è anche un’ottima regia, un eccellente ingranaggio che prende il via da un particolare frammento che fa sì che tutta la storia si dipani a raggiera e che venga vista e vissuta da molteplici punti di vista. È anche un film in cui sequenze a rallentatore, accompagnate da una buona colonna sonora – a volte troppo presente – assumono le sembianze di brevi, inquietanti videoclip. È la pellicola di un regista che non si è dimostrato ‘egoista’, che ha riconosciuto la miriade di contributi di sconosciuti video maker e degli organi di stampa presenti al G8 e gli ha dato ampio spazio. È un’opera che potremmo anche azzardarci a definire ‘corale’, nonostante il coro non canti ma urli di dolore e di rabbia. In questo senso un plauso particolare va’ anche ad Elio Germano e Claudio Santamaria che accettano di rinunciare coscientemente al ruolo di ‘attori famosi’ e si mischiano nella calca, si fanno davvero piccoli per dar visibilità alla storia, alla vischiosità di un sangue che non dovrà essere pulito.   

mercoledì 18 aprile 2012

Il panico e il sorriso (racconto per bambini)

Il cielo era plumbeo. Ingoiava i colori della campagna distesa oltre le finestre della sua casa, venti passi oltre la strada principale e la ferrovia, appena cinque passi dietro alla casa di Nicola, detto anche 'Stalin' da suo fratello maggiore che in quel momento era a Bologna a frequentare l’ultimo anno di università.
Era plumbeo il cielo, era pur sempre Ottobre in fin dei conti, e Mauro se ne stava in cucina, le chiappe ossute sulla sedia di vimini e legno e lo sguardo che sovrastava una pila di stoviglie appena lavate.
Dieci anni, fronte alta, spazietto fra i denti, capelli castani simili a piume di pulcino e mani appiccicose.
Mauro aveva paura.
E poi quel cielo non gli piaceva, anzi gli faceva proprio schifo, e non lo sapeva, ancora non poteva immaginare che dopo aver compiuto vent’anni quella autunnale sarebbe stata la sua stagione preferita, ma solo se vissuta nel suo paese, quella specie di ferita fra due capoluoghi, trionfo di fabbriche e fucina di tossicodipendenti e scout bigotti, culla ideale per preti indolenti e severi, una ferita nel cui dolore lieve e dimenticato sarebbe tornato sempre volentieri, per entrare in casa, stendersi sfinito su un letto troppo molle e guardare lo stesso cielo promettere pioggia.
Non poteva saperlo e non gliene sarebbe fregato nulla perché aveva paura in quel momento Mauro, più di quella che avrebbe avuto se si fosse imbattuto in Gino Lanzelli e quelli più grandi che gli sputavano addosso e lo prendevano a calci in culo ogni maledetto giorno.
Stringeva un foglietto, ormai parzialmente sgualcito dal sudore delle mani, e lo guardava e l’ansia cresceva perché dentro c’era scritto qualcosa e quel qualcosa riguardava suo padre e quel qualcosa l’aveva scritto lui e quel qualcosa era stato premiato dalla maestra solo poche ore prima con un ‘Ottimo’ scritto a chiare lettere e quel qualcosa era stato definito poche ore prima da quella donna che Mauro sognava tutte le sere prima di addormentarsi “il più bel tema della classe”.
“L’hai letto al papà?”, “no, maè”, aveva risposto lui, fingendo di non guardarle il seno, morbido, e i capezzoli che si intuivano sotto la maglia di cotone, “Ma devi farlo, Mauro”, aveva proseguito lei, “promettimi che lo farai” e lui, scemo, aveva promesso e ad un tratto le tettone erano sparite e in lui era nata la paura che nasceva sempre quando doveva mostrare, dire o raccontare qualcosa a suo padre.
“Come cazzo…” sussurrava rosicchiandosi il pollice, terrorizzato da quello che il signor Benfi avrebbe detto, peggio! avrebbe pensato, di quella stronzata scritta di getto solo due giorni prima. Non avrebbe potuto sopportare l’indifferenza stampata sul suo volto che sarebbe tornato impietoso a fissarsi pochi istanti dopo sui risultati della schedina o sullo schermo, dopo avergli rivolto un breve cenno di assenso e avergli domandato “si, ma almeno alla maestra è piaciuto?” e soprattutto non avrebbe sopportato la sua vocetta da cagasotto, saputo e fragile che avrebbe risposto “si, mi ha messo ottimo” sperando di trovare dall’altra parte un entusiasmo che si sarebbe ridotto a un “bravo a papà”.
Pensò di lasciar perdere, “cazzo me ne frega…”, si disse, “lunedì a scuola dirò che l’ho letto. Tanto importa solo a quella, sti cazzi, dico che gliel’ho letto, che mi ha detto ‘bravoo!’ e ciao”. Ma sentiva che non andava. Perché non sapeva mentire ed era un bambino coglione e ubbidiente e poi perché in fondo voleva leggergliela quella stronzata al signor Benfi, stravaccato sul divano senza scarpe, la pancia impegnata in un ritmico e regolare su e giù e gli occhi grigi e semi chiusi dal sonno post-pranzo che incalzava.
“O adesso o dopo di fronte a tutti è sicuro che non lo faccio!” pensò il bambino ma non si decideva perché ricordava ancora la storia dello schiaffo che il padre gli aveva mollato, dopo la crisi di sua madre. Era stata male l’anno prima, la signora Benfi e, un giorno in cinque minuti aveva distrutto il soggiorno. “Questo disordine! Questo disordine!”, gridava scaraventato tutti i giochi da tavolo e il lego e tutte le suppellettili che troneggiavano sul caminetto per terra. Tutto a causa del pupazzo Hulk Hogan lasciato sul pavimento.
Mauro l’aveva lasciata fare, non era colpa sua, lo sapeva, la mamma aveva la depressione, una cosa che lui non capiva ma che doveva essere brutta e imprevedibile perché le faceva cambiare umore ogni minuto e le faceva sentire prima troppo caldo, poi troppo freddo e poi le faceva venire il panico e quello per Mauro era stato un anno terribile perché ogni volta che le veniva il panico lui doveva portarla a fare una passeggiata per i corridoi della casa e lei lo ringraziava e lo baciava ma allo stesso tempo lui si sentiva un inutile buono a nulla. Dopo quella crisi, più forte di altre, il signor Benfi era tornato di corsa a casa, lasciando l’ambulatorio in fretta e furia e quando era arrivato e aveva visto tutto quel casino aveva rimproverato Luisa, afferrandola per le spalle e scuotendola mentre lei ancora piangeva, Dio solo sapeva perchè. Poi l’aveva messa al letto, aveva riordinato il soggiorno e mentre preparava la cena Mauro si era avvicinato mostrandogli un disegno che lo raffigurava e lui si era voltato come una furia e gli aveva dato uno schiaffo. Poi si era girato di nuovo, di scatto, chino sulle foglie di lattuga e i pomodori e Mauro aveva avuto paura, poi era andato al letto e aveva pianto…
“Papà” chiamò una voce che non sentiva come sua, “eh…” rispose il signor Benfi tirandosi su e stiracchiandosi leggermente, “oggi la maestra mi ha messo ottimo a una cosa che ho scritto. Su di te.”. “Ah! Mbè dammi!” esclamò il papà ancora fra sonno e veglia e solo lì Mauro si accorse che gli stava prendendo il foglio dalle mani e che se lo avvicinava al volto e che iniziava a leggerlo, mentre col dito abbassava il volume della televisione.

Dieci minuti dopo il cielo era ancora lì, ancora color perla, ancora gonfio di pioggia ma a Mauro sembrò che l’autunno fosse morto e che a ucciderlo fosse stato il sorriso di Giorgio Benfi, che si era fatto largo fra due baffoni folti e neri, lo stesso che gli aveva visto pochi mesi prima e che aveva illuminato gli spalti di un campetto di calcio, dopo la doppietta che lui, il piccolo Mauro, aveva segnato contro la squadra avversaria. Lo stesso che gli faceva brillare gli occhi, dopo qualche bicchiere di vino fatto in casa da Bruno, l’amico di sempre, lo stesso che gli colorò la faccia quando vinse un cesto pieno di specialità abruzzesi come premio per essere arrivato primo al torneo di boccette al circolo del paese. Lo stesso che fino a quel momento aveva sempre riservato solo a Luisa.
Anche lei aveva ricominciato a sorridere.

Le guance gli pungevano ancora perché la barba ispida di Giorgio gli si era strofinata sulla pelle mentre lo baciava e lo stringeva a lui, sulla poltrona.
E Mauro ancora rideva come un idiota, tenero e felice… e ancora rideva e rideva di gusto mentre si avventava come una bestia fuori dalla gabbia e per la prima volta, contro Gino Lanzelli. Il quindicenne brufoloso e sudicio che puzzava di big buble e sudore, quel pomeriggio non fece in tempo a chiamarlo “frocio” che già urlava di dolore mentre riceveva un deciso e risoluto calcio nei coglioni.

Ilenia

martedì 17 aprile 2012

Ecco com'è che va il mondo, FRANCO BATTIATO 'L'IMBOSCATA'

http://www.youtube.com/watch?v=GnfMPFwCNp4


Era la più grassa puttana
che mai avessi visto,
la donna più grassa che avessi guardato.
Aveva un vestito di seta cangiante,
perline al collo, un ventaglio di struzzo,
mani delicate.
Uno le disse: "schifosa montagna di grasso"
rise e dimenò il corpo come a dire sì,
o buon Gesù, certo sì.
Farlo con te non deve essere comodo,
sei grassa come tre.....
e invece no, invece mi dicono
che bel posto hai
sei più bella di Marilyn
o di Evelyn, non ricordo più.
Rise e dimenò il capo,
farfugliò qualcosa, come a dire sì.

Vedete come va il mondo?
Ecco com'è che va il mondo!

La mia anima non stilla miele e dolcezze,
happyness and truth, bisogni naturali.
Ma io ho una bambina, negli intervalli,
che mi accarezza i bianchi capelli.
E gli anni si fanno docili al suo tocco
mi bacia sulle guance crudeli
e giochi pazienti di rami mi intreccia
con le sue pupille da gatta.

Era d'aprile o forse era maggio?
Per caso la rincontrai
risi e dimenai il capo
accennai qualcosa come a dire sì.
Vedete come va il mondo?
Ecco com'è che va il mondo

lunedì 16 aprile 2012

è una recensione un po' vecchiotta ma il film è ancora nelle sale...

http://www.cinefilos.it/v2/good-recensione-20782

http://www.youtube.com/watch?v=Lm5JovfKxWU

ecco da dove deriva il nome del blog... film fantastico ed inquietante

WELCOME!

Questo è uno spazio in cui commentare, criticare, elogiare o stroncare in libertà assoluta spettacoli teatrali, film, libri, concerti... tutto quanto riguardi cultura ed i suoi derivati! Spero che vogliate addentare insieme a me la torta di Hanging Rock (prima che le formiche la assalgano!)