Il
diario volò circa due metri e mezzo più in là. Continuò ad allacciarsi le scarpe
bestemmiando tra i denti. L’auto era lontanissima.
“Ngul’a mammt…”.
Si alzò in
piedi e si sistemò lo zaino sulla pelliccia sintetica. Raccolse il diario. Sulla
quarta di copertina c’era solo un po’ di polvere, che le mani dalle unghie
corte, curate e smaltate di giallo spazzarono via. L’auto era invisibile.
“Quello
ti stava pure a guardà, Mo!”, Cecilia sbatteva a stento le ciglia
incollate dal rimmel. Si si… continua a
comprà i trucchi dai cinesi che un giorno ti casca la faccia. Lei li
prendeva nel negozio al centro di Corso San Giorgio. Veramente, ormai, aveva trovato pure chi glieli regalava… quella
mattina era la volta del rossetto color sangue 752 Christian Dior, insieme a
matita color burro all’interno della palpebra superiore, sempre Dior, blush
fragola di Kiko, bb cream 15 della Locherber (niente fondotinta), e infine il
tocco di vera classe: ombretto viola glitterato Wet & Dry di Collistar. Le
piaceva andare a scuola, più di quanto le piacesse cuppare, perché a scuola, lei, era indubbiamente qualcuno, adesso
più che mai. Bastava solo dare un’occhiata all’annuario delle classi
2001-2002 per rendersene conto... Però doveva comunque arrivare in ritardo,
mica voleva mischiarsi con quelle dodici sfigate della sua classe che si
incontravano per i tigli alle otto del mattino per raccontarsi cazzate o
guardare quelli della seconda o terza liceo. Se le cagavano era solo per
prenderle per il culo, figurarsi. Che poi quelle, le sue compagne, non erano
neanche cesse. Alcune – lei non lo avrebbe mai detto ad alta voce – forse, se
si fossero aggiustate avrebbero dato da penare a lei e a Cecilia. A Cecilia
sicuramente. Però quei maglioni, quei capelli ricci, quei cazzo di diari con
frasi di cantanti che sapevano troppo anni Novanta, quegli iPod stracarichi di
vecchiume, cioè… secolo scorso! Una volta, a una cena, Danila aveva portato uno
con cui era uscita per un periodo per farlo conoscere a lei, e questo tizio era rimasto tutta la sera a parlare con Chiara, nonostante il
rossetto viola, che sembrava una appena strangolata.
Insomma, alla fine questo,
con la scusa che le doveva prestare assolutamente un dvd introvabile di un film
in bianco e nero su un gabinetto, non si sa che cazzo, si era preso il suo
numero, e quella stronza praticamente non faceva che dirgli “Guarda che puoi
lasciarlo a Monia che me lo porta a scuola, man, non serve che mi telefoni!”… e
Monia avrebbe voluto pestarla e quella grassona vestita di nero lo sapeva. In
palestra, il mattino dopo, le continuava a dire “O Mo’, ma che mi frega? Ma
tienitelo il trentenne, io un amico trentenne già ce l’ho… e da quanto è
coglione mi basta… quello non mi si voleva fare, fidati…”.
Basta.
Insomma, Monia alla fine c’era uscita lei con questo e nel giro di due ore gli
aveva fatto cambiare idea. Fino alla settimana dopo. Chiara però non gli aveva
mai risposto. Stronza. Adesso stava lì alla fermata del bus, a distanza da lei
e Cecilia, appoggiata al palo immersa nel solito libro. Li leggeva pure lei i
libri, ma mica di fronte a tutti… ma la rossa aveva bisogno di questo per
rimorchiare gli sfigati come lei. Di sicuro era pure vergine.
“Eccolo!”,
disse Cecilia, poi vide Chiara. “O zoccola!”, “Ciao troje”, rispose l'altra distogliendo l’attenzione dal libro e mimando l’accento francese. Era il loro
saluto da compagne di scuola, non si stavano antipatiche, con grande disappunto
di Monia. La darkettona vide il pullman che si avvicinava e si preparò per
salire. Sarebbe arrivata in anticipo, figurarsi…
Lei,
invece, sarebbe arrivata in ritardo anche quel giorno, c’era ancora il tempo
per una, anche due sigarette. E in questo Cecilia la seguiva a ruota, la
seguiva a ruota in tutto. Nello stile e nel gusto no. Non le stava dietro, neanche
nella scelta degli uomini, neanche nell’antipatia a tratti per la darkettona.
Ma
ce l’aveva anche Monia, ora, il suo trentenne. E non erano amici.
-
“Insomma…
tipo, io… secondo me i sogni premonitori esistono. Io ce n’ho uno per quando le
cose mi devono andare bene e un altro per quando mi devono andare male. Tipo…
quando mi devono andare bene io mi sogno che sono Jim Morrison. Che sono… come
lui e agito l’uccello e mi muovo sinuosa e, tipo… impazziscono tutti per me,
donne, uomini, bambini, professori… tutti. E quindi niente, in questo sogno tutto
il cortile della scuola mi venera e il megafono non lo suonano più per andare
contro questo o quello ma per dirmi che io sono un mito, e c’ho un vestito
tutto incollato al corpo che sembro un serpente e sono… cioè sono
abbronzata!...”
“Da
quando il megafono si suona, Emì?”
“Ah…
eh?… che ho detto? Che si suona? No, no, non lo usano per urlare…”
“Ma
per dirti quanto sei figa, ok…”
“Eh”
“E
tu ti sogni di agitare l’uccello come Jim Morrison?”
“Sì”
“Nel
cortile della scuola?”
“Sì”
“Quanti
anni hai, Emì?”
“Quarantanove
a maggio”
“Checcazzo!
ti sogni ancora la scuola?”
“E
che devo sognare, Noman? La stazione… l’ospedale o la chiesa?? È ovvio che nei
sogni in cui sei figo o in cui qualcuno ti fa davvero del male o in cui poi ti
svegli con il magone c’è sempre la scuola di mezzo”.
“Ok…”
“E
poi, comunque, non mi sogno il cortile del liceo classico, ma dell’artistico”
“Ah,
allora… e il sogno che ti predice le disgrazie?”
“Padre
Pio”
“Ah!”.
Emilia,
detta anche Milly, passò la lattina di birra a Emanuele, detto Noman, che bevve
un sorso per poi restituirla subito alla donna. Un gruppetto di 13, 14enni,
taglio di capelli alla Adolf, borse a tracolla e piercing, ciascuno in varie
zone del labbro, guardò la scena con espressione schifata. Ma a Noman, Milly
non avrebbe mai fatto schifo. O forse quelli si erano schifati di lui. O di
tutti e due.
Milly
intanto spolverava la sua borsetta a pallini rossi e neri, molto graziosa. Come
graziosa era ancora lei, nonostante tutto.
“Caro,
grazie per la birra… Io me ne torno a San Francesco che forse a quest’ora il
bagno è libero. E comunque, a proposito, stanotte è successo. Beh, amen… m’ vuj
arlavà li dint”.
“Ciao
Emì”.
I
tacchetti sui sampietrini la facevano incespicare appena.
“…Noman!”
“Ohu
Chià!”
“Ohu,
anniottanta oggi più che mai eh?!”
“Perché?”
“Mi
pari Joey Tempest co quel cazzo di giubbotto”
“Ha
parlat’ Mary Poole Smith…”.
Chiara
aveva i ricci tutti spettinati, il rossetto rosso e la matita nera. Voleva
assomigliare a Robert Smith e ci riusciva alla grande. Solo che lei era rossa.
“Magari…
vabbò, comunque ecco qui”.
“Già
te l’ì finit??”
“Si!”
Gli
porse la copia de L’innocenza di Padre
Brown, “Un grande! Mi devi prestare altri libri di Chesterton”.
“Va
bene! Però prima, pensandoci bene, ti devo dare un po’ di Agatha”
“Noooo!!!
Chesterton!!!”.
Era
comunque una mezza bambina, Chiara.
“Non
ti puoi appassionare di gialli senza leggerti Agatha Christie”
“No?”
“No”
“Ok…”
Ecco,
appunto. Ubbidiente. E sarebbe stata così fino ai 24 anni almeno. Poi avrebbe
iniziato a capire che in fondo anche lei era una donna, e non brutta, e avrebbe
iniziato a fare diete, usare la piastra e considerare quelli come lui poveri
stronzi da disprezzare.
“Ti
aiuta pure a sviluppare la logica, Chià. Tu per la logica sei na chiavica.”
“Lo
so”.
Chiara
guardò Noman che frugava nella borsa a tracolla.
È illogico, ad
esempio, il fatto che io ho 17 anni e tu 33 e che io, tanto per dirne una, ti
amo.
Quella
mattina non si era messo la brillantina e aveva i capelli tutti scomposti. Le
ciocche chiare gli ricadevano a ciuffi sulla fronte. Sembrava Damon Albarn, solo
che non era gracile. Ed era alto. Damon Albarn non sembrava alto.
La
maglietta troppo corta gli scopriva appena la pancetta che anni di birre
avevano gonfiato solo quel tanto che ora serviva per eccitarla. Le piacevano
pure i gomiti di Noman.
“Sveglia,
Chià!”.
Chiara
e le sue 43 gradazioni di viola sulle guance presero il libro. Un delitto avrà luogo.
“Grazie…
ora devo andare a scuola… Grazie Emanuè… eh, cioè… Noman”
“Guarda
che se mi chiami Emanuele è ok”
“Ok,
allora ciao”, e corse verso l’ingresso.
Voleva
morire coi suoi gomiti addosso.
Noman,
al secolo Emanuele Neri, costeggiò il maledetto liceo classico pensando che,
tutto sommato, aveva fatto bene a svegliarsi presto. Aprire gli occhi alle
sette per andare a lavorare era una tortura, ma farlo perché dovevi aspettare
un’amica all’ingresso della scuola – seppur scuola di merda - mantenendo la
consapevolezza che poi avresti potuto bighellonare per tutti i bar di Teramo, era
un’altra questione. Il mercoledì non lavorava. Non aveva programmi, nulla a cui
pensare e quelli erano i giorni che amava di più. Pensò di passare in
tabaccheria a fare due chiacchiere con Domenico, ma poi cambiò idea e imboccò
la strada dei tigli. Caffè e sigaretta sulla panchina di fronte al busto di
D’Annunzio, occhi puntati su vecchi e mamme. Non necessariamente milf.
Nonostante disprezzasse molte caratteristiche del posto in cui si trovava, pensò che era stato fortunato a nascere nell'unico cesso in cui avrebbe comunque potuto vivere. Non era una questione di radici, lui non aveva esattamente un animo crepuscolare. Lui non avrebbe mai saputo dire il perché di quella convinzione, ma la verità è che era un fatto di somiglianza. Quella città, forse l'intera provincia, somigliava molto a Emanuele detto Noman.
Tanti sapevano come si chiamava, ma nessuno la conosceva davvero. Era sempre desiderosa di rimediare agli errori del passato e sempre pronta a compierne di peggiori. Anche se qualcuno avesse pensato che era bella non l'avrebbe mai detto con convinzione perché lei stesso sembrava ignorare i suoi lati positivi, o peggio, fare di tutto per nasconderli quando non riusciva a distruggerli.
Solo apparentemente tesa verso la novità, l'originalità a tutti i costi, era una città che le cose "nuove", le lasciava fare sempre e solo alle persone vecchie. Non anagraficamente.
Passò accanto a un vecchietto che dava da mangiare ai piccioni, accanto alla fontana all'inizio della passeggiata dei Tigli.
Secondo Noman, i vecchi della città odoravano tutti come suo nonno che in quel momento si faceva un sonno nel loculo numero 79 dell'ala nord-ovest del cimitero di Cartecchio. Le vecchiette, naturalmente, sapevano tutte di crema per le mani, caffè appena fatto e grembiule scolorito e fresco di bucato.
Forse un po' di crepuscolarismo c'era in tutto questo, pensò, ma pensò anche che gliene importava molto poco e che se anche fosse stato deriso dai ragazzini col taglio alla Adolf per quei pensieri che con la sua persona non dovevano assolutamente entrarci nulla, era finita l'era in cui doveva dichiarare di credere solo a una manciata di dischi, o musicisti o fiche o simboli che dimostrassero - a chi poi? - la sua vera natura di punk. Noman era abbastanza sicuro di non credere più a niente da anni, e se ricordava se stesso da adolescente, gli tornavano in mente tutte le paranoie, tutta l'inconsapevolezza, ma anche la speranza in quel futuro che a slogan rinnegava. Adesso aveva solo il suo presente, a volte gli piaceva e a volte no. Di sentimenti gliene erano rimasti pochi e sempre e solo per le stesse persone.
Ci ripensò, il caffè non lo voleva. Accese una sigaretta.
....
I'm not real and I deny, I won't heal unless I cry
I can't grieve so I won't grow I won't heal 'til I let it go
I'm not real and I deny, I won't heal unless I cry
- Come se avessi una canzone dei Cocteau Twins nelle orecchie ogni volta che lo vedo. Sta Elizabeth Fraser che mi canta nella testa, la sento dalle cinque del mattino che mi canta in testa e mi sveglio prestissimo e mi metto a leggere o a guardare la televisione. Ci sono dei programmi assurdi in tv alle cinque del mattino, tipo Primi Baci. Comunque... mo mia mamma pensa che io sia matta, ma non sono matta. Io sono felice.
- Io pure penso che sei matta Chià, però sono felice di vederti così felice.
- Ma io lo so che sono matta Cristì, però non ci posso fare niente...
- Risali oggi pomeriggio a farti un giro?
- Non lo so, forse rimango a casa a leggere
- E dai! scusa magari se esci lo vedi. E' meglio che stare a leggere a casa un libro che ti ha prestato lui e pensare a lui
- Non lo so...
- Madò stai messa male Chià.
- Lo so.